Il nostro corpo parla ogni volta che assumiamo una posizione e rivela molte emozioni che spesso a parole non sappiamo comunicare.

Domenica mattina ero con una quindicina di bambini di circa sette anni. Chiesi loro di dipingere con gli acquerelli una festa, la loro personale idea di festa. Al termine del lavoro chiesi a ciascuno di dare un titolo alla propria opera e di mostrarlo. Arrivati a Federica (nome di fantasia) lei si rifiutò.

Incrociò le braccia, abbassò la testa e imbronciata scrollò la testa da destra a sinistra per dire “no, non voglio”.

Cercai di capirne la ragione, ma lei non me ne diede alcuna e alla fine lo mostrai io. Lei si prese il suo applauso come tutti gli altri senza sciogliere il silenzio. Il corpo invece cambiò leggermente la sua postura aprendosi moderatamente.

Quando parlai con sua mamma alla fine dell’incontro, lei mi confermò la sua abituale chiusura, la sua difficoltà ad aprirsi e a mostrarsi anche a scuola. Le maestre lo avevano rilevato da tempo.

Suggerii allora di guardare il suo corpo e di provare a comprendere quello che comunicava loro anche senza l’ausilio delle parole. Ringraziandomi disse che non ci aveva mai pensato e che nessuno le aveva mai detto di guardare il corpo di sua figlia nei momenti di silenzio, per individuare le emozioni e che non le risuonava affatto come indicazione scontata. 

Siamo poco abituati a guardare il corpo che parla anche attraverso semplici gesti:

la posizione eretta e aperta del tronco oppure riversa su se stessi. Innalzamento o abbassamento del capo; braccia aperte o conserte; gambe incrociate o rilassate; mimica facciale, cura delle mani e delle unghie. E potremmo andare avanti con decine e decine di esempi molto esplicativi dell’argomento per sottolineare come sia importante farci caso. La rigidità o la flessibilità posturale ci aiutano ad individuare le emozioni inespresse a parole e, a volte, oltre alle intenzioni anche le motivazioni sottostanti. Un rifiuto può essere motivato da paura, da vergogna o da orgoglio, tre ragioni differenti a volte concatenate, ma su cui poter intervenire in modo differenziato.

Con Federica mi sono sentita di agire al posto suo per non colludere con il sentimento di inadeguatezza che mi comunicava e di rigidità della posizione di chiusura presa. Ho un po’ forzato, è vero, ma la conseguente apertura e rilassatezza del corpo assunta immediatamente dopo (e non il pianto per esempio che avrebbe potuto scatenarsi) hanno confermato la mia supposizione.

Ho accompagnato questo intervento con un brevissimo discorso sul significato personale e altrui di quello che facciamo e sul ruolo del giudizio che diamo alle nostre opere; sulla fatica di confrontarsi e sul coraggio che possiamo mettere in campo quando abbiamo un po’ di timore.

Come spesso accade, sono molte le occasioni per riflettere insieme ai figli o ai bambini in generale sulle virtù e sugli strumenti utili per crescere.

La fatica di Federica ben espressa dal suo corpo mi ha dato l’occasione di riflettere sul coraggio delle proprie azioni e sulla bellezza della condivisione, ma anche di poter aiutare la sua mamma nella personale relazione con la figlia.

di Eleonora Alvigini

CONSIGLIO PRATICO

  •  Osserva come si muove il corpo del tuo bambino e prova ad individuarne le emozioni, andando oltre all’ascolto del linguaggio verbale.
  • Chiediti cosa prova e quando pensi di avere capito rispondi al suo bisogno. 
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