Non è raro, anzi…che un genitore, quando prova rabbia davanti a un figlio, gli tiri un ceffone, oppure che un insegnante o un educatore per lo stesso motivo davanti al proprio alunno lo mortifichi a parole. Si tratta di due aggressioni che portano sempre a una sola conseguenza: il senso di colpa nell’uno e il risentimento nell’altro.

Una madre o un padre consapevoli e amorevoli, poi, faranno di tutto per compensare un’aggressione, così l’insegnante saggio.

Il paradosso è che, anche quando si hanno argomentazioni ragionevoli per discutere con l’altro, l’aggressività ne cancella ogni traccia. La mancanza di controllo ci fa perdere la possibilità di aiutare l’altro a capire anche ciò che è ragionevole e sensato. Ci si lascia sopraffare dall’aggressività passiva che si subisce da un interlocutore che riconosciamo più fragile, ma che comunque ci ferisce.

In questi casi quando si ricorre a gesti o parole mortificanti succedono due cose:

  1. L’altro smette di ascoltare ed eventualmente di provare a capire;
  2. Chi ha prevaricato in modo palese, invece, si sente in colpa e cerca un modo di bonificare tutto il prima possibile con un gesto o più gesti riparatori.

Il che fortifica ancora di più la sensazione dell’interlocutore di non essere compreso e forse addirittura amato fino in fondo.

Fare l’inevitabile esperienza dello scontro, che nasce anche da un confronto normale e naturale fra le persone, ci insegna a comprendere sempre più e sempre meglio come siamo fatti, cosa ci aiuta a stare bene e cosa ci fa perdere il controllo. 

Ci aiuta a prendere coscienza dei nostri limiti e di ciò che possiamo provare a cambiare affinché le relazioni funzionino meglio.

Ogni volta che ci scontriamo con l’altro siamo più inclini a vedere il suo limite, ma sarebbe più utile e funzionale per entrambe le parti guardare anche dentro di sé e provare ad intercettare le proprie modalità e le proprie responsabilità.

Così possiamo crescere e aiutare a crescere dentro una relazione.

Eleonora Alvigini

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