Essere madre è un dono prezioso di cui sono immensamente grata. Spesso è anche un viaggio nell’ignoto, perché non sai che cosa succederà l’indomani; ogni figlio è un mondo a sé, con bisogni ed emozioni che cambiano insieme al cambiare della vita stessa. Diventare madre è un’esperienza che richiede capacità diverse: la coerenza attraverso cui essere testimoni credibili di ciò che si desidera trasmettere, altrimenti i messaggi non passano; la capacità di aspettare il tempo dei figli che spesso non sono propriamente quelli del genitore; la fiducia in loro, che dipende più da quanto si saranno potuti fidare di noi e da quanto li avremo fatti sentire degni della stessa fiducia, nel corso della crescita.

E io sono cresciuta con voi, ho riso con voi, ho pianto con voi, ho gioito e sofferto con voi, ho cercato con voi le risposte che non avrei mai trovato senza di voi. E ho anche sbagliato e ricominciato ogni volta.

In questi anni ho cercato soprattutto di ascoltare e di vedere come se avessi occhiali speciali per guardare dentro le cose, dentro le parole, dentro il vostro cuore, ma forse per essere davvero efficace ho dovuto e potuto soprattutto guardare e ascoltare me stessa, cercando le risposte adatte a voi, ma anche a me perché il vostro bene non può prescindere dal mio vero bene. E nel tempo ho imparato che non si può amare nessuno, neppure un figlio, senza amare se stessi. C’è un momento, in particolare, in cui capisci questa corrispondenza fra l’amore di sé e l’amore per l’altro: quando tuo figlio sta male. Le prime volte in cui senti il tuo bambino o la tua bambina piangere disperatamente (o forse la disperazione è l’emozione che si sente, non riuscendo a calmare quel pianto) è come se il dolore si trasferisse direttamente nel proprio cuore di madre, che darebbe qualsiasi cosa per mettersi al posto della sua bambina. Poi col tempo e con un po’ di esperienza, si scopre che anche quel pianto è sopportabile; si impara a capirne il significato e soprattutto smetti di sentirti in colpa o inadeguata e riesci finalmente a dare delle risposte efficaci a tuo figlio. Nel tempo, ho imparato a riconoscere i miei limiti e a cogliere le risorse intorno a me, come quella sera in cui mia figlia Sofia, di pochi mesi, non riusciva ad addormentarsi e piangeva stremata dalla stanchezza. Io non sapevo più come tranquillizzarla, ma in quel momento si avvicinò Lisa, tre anni e mezzo, che mi disse con una pianola-giocattolo in mano: “Mamma prova questo.” e Sofia smise di piangere, addormentandosi di lì a poco..

Essere madre significa soprattutto saper aspettare e non avere troppa fretta di risolvere o di capire tutto quello che accade nel frattempo.

Aspettare la guarigione da una malattia, aspettare che escano i dentini, aspettare di ascoltare quello che non va, aspettare una telefonata di conferma di un arrivo o di una partenza, aspettare il ritorno dopo una giornata fuori casa, aspettare che passi un’arrabbiatura, aspettare che si riordini la camera, aspettare che ci sia la voglia di raccontare quel che fa soffrire, aspettare che passi un esame a scuola, aspettare perchè si capisca il motivo vero di un litigio, è faticoso e a volte frustrante eppure una madre spera di dover aspettare sempre.

La sfida più coraggiosa, invece, è lasciarvi andare; non è mai il momento, non siete mai abbastanza pronti. E lo capisco perché io stessa sento la mancanza delle mie figlie cresciute.

Eppure, se tutto ha funzionato nei primi anni di vita, il desiderio naturale di ciascuno è proprio quello di esplorare il mondo, di guardare oltre e fuori dal cancello di casa per costruire la propria storia e dare vita ad un nuovo porto sicuro. Il compito di una madre e di un padre si realizza in quel momento: la cassetta degli attrezzi è riempita e pronta all’uso e voi potete iniziare il vostro viaggio. Giudizi, aspettative, timori eccessivi, sfiducia e attaccamento morboso sono i nemici giurati della felicità di sé e dell’altro, soprattutto quando l’altro è tuo figlio. 

Eleonora Alvigini

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