di Eleonora Alvigini

Domande inevitabili che arrivano all’improvviso in giornate come quelle che stiamo vivendo e che non possiamo evitare.

La guerra non è più un evento lontano neppure per chi non ne fa esperienza diretta. La viviamo globalmente attraverso i media e ai social che ci sommergono di parole e immagini dettagliate.

In poche ore siamo tutti catapultati in quella parte di mondo assediata e calpestata, violata nei suoi diritti di vivere nella pace. Bambini compresi.

Nascono da qui le domande scottanti e difficili a cui rispondere. E come andrebbero protetti i bambini in Ucraina oggi e in Burkina Faso, in Libia, in Mozambico, in Congo, in Somalia, in Siria , in Nigeria, in Sudan, in Afghanistan e in molti altri paesi del mondo, così vanno protetti i nostri bambini che, al di fuori dei confini in cui si combatte, rischiano di percepire la paura e la drammaticità, a causa della nostra incapacità di filtrare tutte le informazioni che entrano ininterrottamente nelle nostre case e nelle nostre menti.

La guerra è la sconfitta dell’umanità di fronte alla scelta fra il bene e il male e va spiegata ai bambini con le giuste parole, adeguate all’età e alle capacità di comprendere e di elaborarne la sua tragicità. Per questo è necessario filtrare e selezionare tutte le informazioni di tipo quantitativo e qualitativo che arrivano senza sosta. La moderna possibilità di accedere a tutto in tempo reale ci trasporta sui vari campi di battaglia della vita con il rischio (soprattutto per i più giovani) di percepire aggressività e violenza, impossibili da gestire autonomamente, da cui nascono angosce spaventose premature.

Possiamo e dobbiamo far fronte alle domande che nascono nei nostri bambini e nei nostri ragazzi perché solo le risposte ricevute nel rispetto della persona e della realtà delle cose ci fanno crescere, ma questo non significa che dobbiamo sottostare alla incessante, incontrollabile e inutile sollecitazione delle notizie, peraltro spesso deformate e false che ci vengono trasmesse. Noi soli possiamo e dobbiamo scegliere cosa fare entrare nelle nostre case, cosa mostrare ai nostri figli sapendo che, per esempio, ci può essere la stessa percezione di angoscia di morte nella visione di un bombardamento come in una scena di sesso, di una malattia incurabile o di incidenti mortali.

La violenza si è presa molto più spazio di qualsiasi altro aspetto della vita nelle nostre fruizioni mediatiche e così alimenta sempre di più la fantasia e l’immaginazione delle generazioni, che non hanno strumenti di difesa, se non la volontà degli adulti di educarli alla scelta critica e responsabile prima di tutto di ciò che guardano e poi di ciò che fanno.

Solo noi possiamo fornire loro la chiave di lettura corretta di ciò che ci succede.

Solo noi adulti, genitori, educatori, insegnanti, allenatori abbiamo la responsabilità di orientarli a comprendere il significato di quello che accade nel mondo ogni giorno nel rispetto di tutti gli aspetti e i piani coinvolti nella ricerca di risposte e di vie che conducano sempre là dove tutti naturalmente tendiamo: un luogo dove stare bene e sentirsi al sicuro.

I bambini sanno bene cosa sia l’aggressività, quella che mettono in scena spesso nei loro giochi anche attraverso quello della guerra, ma il significato dei loro giochi simbolici ha a che fare con il bisogno di affermazione, non certo con la volontà di annientare l’altro.

Possiamo spiegare anche questa differenza ai nostri figli, ricordandoci che è buona regola aspettare le loro domande, senza anticipare troppo i contenuti che non sarebbero in grado di comprendere. Infine c’è un altro aspetto delle guerre che, al contrario, va valorizzato: la solidarietà. Le catene umanitarie che nascono durante un evento catastrofico sono un modo di combattere la guerra stessa. Coinvolgiamoci come famiglia nelle azioni di solidarietà che nascono nel nostro quartiere o con le associazioni benefiche che si attivano. A qualsiasi età i bambini possono trarne insegnamenti di grande valore, accanto ai loro cari

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